Della violenza e le sue parole

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Oggi è la Giornata mondiale contro la violenza sulle donne. Non parlerò delle manifestazioni in programma domani in tutta Italia, a partire da Roma, né dei dati Istat sulle varie sfumature del fenomeno (che potete però trovare qui, per un ottimo riepilogo nazionale su dati Istat, e qui per un quadro della situazione in Emilia-Romagna).

Oggi vorrei parlare delle parole, le parole della violenza. Non solo quelle che vengono usate per ferire, manipolare, denigrare, sminuire una donna nei casi di violenza, ma anche di quelle che vengono usate per descrivere e raccontare a violenza stessa, quando si accende l’attenzione mediatica su un caso o anche solo quando se ne parla per strada.

Le parole sono importanti, fondamentali, perché plasmano il mondo, o meglio, il modo in cui questo viene descritto e riscritto nella comunicazione. E troppo spesso scegliere (deliberatamente o meno) le parole sbagliate significa creare un’immagine distorta, parziale, comunque non veritiera. E spesso dannosa. Ecco alcune di queste parole ‘pericolose’, controverse, o semplicemente sbagliate. Perché per combattere la violenza di genere, bisogna cominciare dalle parole che usiamo per raccontarla e spiegarla.

Femminicidio

E’ il nome dato ad un fenomeno che prevede l’uccisione di una donna da parte del partner o dall’ex partner in quanto donna, moglie, fidanzata, ex, comunque un essere femminile considerato inferiore o di proprietà, un oggetto di cui disporre. Non è un neologismo, ma fu usato la prima volta nel 1990 dalla docente di Studi Culturali Americani Jane Caputi e dalla criminologa Diana Russell nello studio Femicide: The Politics of woman killing. Come ogni parola nella sociologia e nella criminologia, serve a delineare un fenomeno, raggruppando casi che presentano caratteristiche comuni in modo da gestirli al meglio, stabilire leggi, linee guida, protocolli da seguire, creare database e studiare i dati relativi. Usare la parola femminicidio non presuppone che gli altri omicidi siano di serie B. E’ il nome di un fenomeno, al pari di pedofilia, stupro, violenza psicologica, furto, rapina, omofobia, transfobia, razzismo.

 

‘Anche gli uomini…’

Quando si parla di violenza sulle donne (e quindi anche in questa giornata), spuntano puntualmente reazioni e obiezioni (spesso da parte di uomini) che sottolineano l’esistenza anche della violenza sugli uomini da parte delle donne. Il problema esiste e va affrontato. Ma, come sopra, il fatto di parlare di un determinato problema, o reato o fenomeno, non presuppone che esista solo quello o che gli altri siano di serie B. Semplicemente, dati alla mano, si registrano decisamente più casi di donne uccise, maltrattate o violentate da uomini che il contrario. Casi che proprio per il loro numero e caratteristiche delineano un fenomeno ahimè molto diffuso. Riconoscerlo non significa sminuire o voler nascondere il problema degli uomini vittime di violenza. Anzi, molto spesso è la stessa cultura maschilista che ci opprime tutti, rinchiudendoci in caselle stereotipate, a negare agli uomini la possibilità di riconoscersi vittime delle donne, perché sarebbero additati come ‘non uomini’, ‘femminucce’, ‘gay’.star-wars-rey

Allo stesso modo, sono frequenti gli uomini che si ergono a difensori della ‘categoria’: non siamo tutti così. Grazie, lo sappiamo benissimo. Non è una guerra tra sessi. Stiamo cercando di risolvere un problema, possibilmente insieme. Non ci serve sapere che non siete tutti potenziali stupratori, lo sappiamo già. Ma voi per primi smettetela di considerarvi tali, di mettere in guardia le vostre figlie e compagne dall’uomo ‘cattivo’ e dal suo ‘istinto predatorio’ da non stuzzicare e cominciate a lavorare al nostro fianco, attivamente, per risolvere il problema, per cambiare la cultura che sta alla base di questo fenomeno. Una cultura che danneggia tutti, anche gli uomini.

 

Raptus

Ogni volta che si sente parlare di femminicidi o violenza sulle donne, le motivazioni del gesto del colpevole vengono sempre ricondotte a liti finite male, raptus, improvvisa ira che fa perdere la testa, un momento di pazzia. Insomma, l’assassino o il colpevole, mentre uccideva o picchiava la sua vittima, non era in sé. Cosa difficile da credere, soprattutto perché spesso violenze sistematiche, attacchi con l’acido, omicidi e stupri, si mostrano agli occhi degli inquirenti come pianificati o rientranti in un quadro più ampio fatto di ulteriori violenze, psicologiche e non. Presentarsi ad un incontro con la ex armati di coltello non è un raptus. Nascondere un cadavere e sviare le indagini non è un raptus. Ferire mortalmente la compagna/moglie/ex durante l’ultima di numerosi liti e percosse non è un raptus. Ridurre le violenze a un momento di pazzia o semi-infermità mentale non aiuta la lotta contro la violenza.

 

Hot, sexy, bella: la vittima

kalisi-game-of-thronesFotogallery delle donne uccise con foto rubate dai social, magari ammiccanti, descrizioni fisiche dettagliate, attenzione morbosa sulla vita privata della donna, su cosa indossava, su quanto, come e con chi faceva sesso, immagini di lei abbracciata al suo stesso assassino/stupratore/aguzzino. “Che peccato che sia stata uccisa/sfregiata/picchiata, era così bella“. Questo non è il racconto di una violenza. E’ un ulteriore sopruso ai danni della vittima, che ancora una volta viene spogliata della sua voce, della sua dignità, della sua storia, focalizzando l’attenzione solo sul suo aspetto fisico o sulle sue abitudini private e sessuali. Non trasformiamo la violenza in una scusa per fare un morboso Miss Italia. Basta anche con le immagini di donne con gli occhi neri e lividi, magari accovacciate in bagno mentre piangono o mentre implorano perdono proteggendosi. Cominciamo a fare immagini di repertorio che rappresentino donne forti, intente a riprendersi la propria vita, a vincere la paura, a reagire al sopruso.

 

Il web

E’ sempre colpa del web, della rete, dei social. Quando una donna viene messa pubblicamente alla gogna per un video intimo, o per foto private e intime, è sempre colpa del web. Mai delle persone. Al massimo è colpa della stessa vittima, perché una donna/ragazza ‘per bene’ non si presterebbe mai a fare certe foto o video. Comunque non è certo colpa dell’amico/fidanzato/marito/hacker che ha diffuso i media privati senza il consenso della diretta interessata, magari per gioco o per ‘revenge porn‘ o anche solo per bullismo e ricatto.

 

Amore

La parola più importante di tutte. Più della metà delle violenze sulle donne avviene dentro le mura domestiche, per mano di compagni, fidanzati, mariti, familiari. Quello non è amore. Non è amore malato, amore non corrisposto, amore da far perdere la testa, invaghimento, innamoramento, preoccupazione, affetto smisurato, non poter stare senza di lei, essere pazzo di gelosia. Non è amore. Punto. Smettiamola di descriverlo come tale o sottintendere che l’amore possa assumere anche queste forme, perché non è così. E’ dannoso e pericoloso. E’ uno dei motivi per cui quasi il 90% delle donne non denuncia il proprio aguzzino. Tante, troppe, pensano: in fondo è il suo modo di amarmi. Non è così.

Non. E’. Amore.

Non è facile raccontare la violenza in modo imparziale, specie se una delle due parti coinvolte non può più dare la claire-outlandersua versione. Ma è nostro dovere cercare di fare del nostro meglio, non per sostituirci alla giustizia, ma per rendere un giusto racconto senza danneggiare ulteriormente la dignità di chi è già stata ferita o uccisa. E per non aggiungere alla violenza altra violenza, quella delle parole sbagliate.

Per chi è interessato a un approfondimento, merita una visita il sito della rete Giulia – Giornaliste unite per il cambiamento, che ha redatto un decalogo per la corretta informazione nei casi di violenza ed è attiva ogni giorno per la tutela delle donne in generale nel mondo dell’informazione.

*immagine di copertina della fotografa Kate T. Parker

 

 

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